Aldo Palazzeschi, I fiori

"Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride... Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente,al coraggio di ridere rumorosamente".

Aldo Palazzeschi (Il controdolore, 1913)

 

L'incendiaria lirica di Aldo Palazzeschi I fiori fu pubblicata per la prima volta sulla rivista "Lacerba" (1 aprile 1913, poi in L'incendiario, Edizioni Futuriste, Milano, 1913). L'interpretazione di Paolo Poli: CLICCA QUI

 

Non so perché quella sera,

fossero i troppi profumi del banchetto...

irrequietezza della primavera...

un’indefinita pesantezza

mi gravava sul petto,

un vuoto infinito mi sentivo nel cuore...

ero stanco, avvilito, di malumore.

Non so perché, io non avea mangiato,

e pure sentendomi sazio come un re

digiuno ero come un mendico,

chi sa perché?

Non avevo preso parte

alle allegre risate,

ai parlar consueti

degli amici gai o lieti,

tutto m’era sembrato sconcio,

tutto m’era parso osceno,

non per un senso vano di moralità,

che in me non c’è,

e nessuno s’era curato di me,

chi sa...

O la sconcezza era in me...

o c’era l’ultimo avanzo della purità.

M’era, chi sa perché,

sembrata quella sera

terribilmente pesa

la gamba

che la buona vicina di destra

teneva sulla mia

fino dalla minestra.

E in fondo...

non era che una vecchia usanza,

vecchia quanto il mondo.

La vicina di sinistra,

chi sa perché,

non mi aveva assestato che un colpetto

alla fine del pranzo, al caffè;

e ficcatomi in bocca mezzo confetto

s’era voltata in là,

quasi volendo dire:

"ah!, ci sei anche te".

 

Quando tutti si furono alzati,

e si furono sparpagliati

negli angoli, pei vani delle finestre,

sui divani

di qualche romito salottino,

io, non visto, scivolai nel giardino

per prendere un po’ d’aria.

E subito mi parve d’essere liberato,

la freschezza dell’aria

irruppe nel mio petto

risolutamente,

e il mio petto si sentì sollevato

dalla vaga e ignota pena

dopo i molti profumi della cena.

Bella sera luminosa!

Fresca, di primavera.

Pura e serena.

Milioni di stelle

sembravano sorridere amorose

dal firmamento

quasi un’immane cupola d’argento.

Come mi sentivo contento!

Ampie, robuste piante

dall’ombre generose,

sotto voi passeggiare,

sotto la vostra sana protezione

obliare,

ritrovare i nostri pensieri più cari,

sognare casti ideali,

sperare, sperare,

dimenticare tutti i mali del mondo,

degli uomini,

peccati e debolezze, miserie, viltà,

tutte le nefandezze;

tra voi fiori sorridere,

tra i vostri profumi soavi,

angelica carezza di frescura,

esseri puri della natura.

Oh! com’ è bello

sentirsi libero cittadino

solo,

nel cuore di un giardino.

- Zz... Zz…

- Che c’è?

- Zz... Zz...

- Chi è?

M’avvicinai donde veniva il segnale,

all’angolo del viale

una rosa voluminosa

si spampanava sulle spalle

in maniera scandalosa il décolleté.

- Non dico mica a te.

Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli

che son sulla spalliera,

ma non vale la pena.

Magri affari stasera,

questi bravi figliuoli

non sono in vena.

- Ma tu chi sei? Che fai?

- Bella, sono una rosa,

non m’hai ancora veduta?

Sono una rosa e faccio la prostituta.

- Te?

- Io, sì, che male c’ è?

- Una rosa!

- Una rosa, perché?

All’angolo del viale

aspetto per guadagnarmi il pane,

fo qualcosa di male?

- Oh!

- Che diavolo ti piglia?

Credi che sien migliori,

i fiori,

in seno alla famiglia?

Voltati, dietro a te,

lo vedi quel cespuglio

di quattro personcine,

due grandi e due bambine?

Due rose e due bocciuoli?

Sono il padre, la madre, coi figlioli.

Se la intendono... e bene,

tra fratello e sorella,

il padre se la fa colla figliola,

la madre col figliolo...

 

Che cara famigliola!

È ancor miglior partito

farsi pagar l’amore

a ore,

che farsi maltrattare

da un porco di marito.

Quell’oca dell’ortensia,

senza nessun costrutto,

si fa sì finir tutto

da quel coglione

del girasole.

Vedi quei due garofani

al canto della strada?

Come sono eleganti!

Campano alle spalle delle loro amanti

che fanno la puttana

come me.

- Oh! Oh!

- Oh! ciel che casi strani,

due garofani ruffiani.

E lo vedi quel giglio,

lì, al ceppo di quel tiglio?

Che arietta ingenua e casta!

Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.

- No! No! Non più! Basta.

- Mio caro, e ci posso far qualcosa

io,

se il giglio è pederasta,

se puttana è la rosa?

- Anche voi!

- Che maraviglia!

Lesbica è la vainiglia.

E il narciso, quello specchio di candore,

si masturba quando è in petto alle signore.

- Anche voi!

Candidi, azzurri, rosei,

vellutati, profumati fiori...

- E la violacciocca,

fa certi lavoretti con la bocca...

- Nell’ora sì fugace che v’è data...

- E la modestissima violetta,

beghina d’ogni fiore?

Fa lunghe processioni di devozione

al Signore,

poi... all’ombra dell’erbetta,

vedessi cosa mostra al ciclamino...

povero lilli,

è la più gran vergogna

corrompere un bambino

- misero pasto delle passioni.

Levai la testa al cielo

per trovare un respiro,

mi sembrò dalle stelle pungermi

malefici bisbigli,

e il firmamento mi cadesse addosso

come coltre di spilli.

Prono mi gettai sulla terra

bussando con tutto il corpo affranto:

- Basta! Basta!

Ho paura.

Dio,

abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.

Aprimi un nascondiglio

fuori della natura.