"Improvvisamente saltano fuori centinaia di sambuchi. Io conoscevo un endecasillabo bellissimo di Montale: Alte tremano guglie di sambuchi. Lui mi fermò e mi disse: – Che bel fiore, cos’è? -. Diedi un urlo come di bestia ferita: – Eugenio, stai scherzando? Sono sambuchi! -. Mi guardò stupito: – E con questo? La poesia si fa con le parole."
M. L. Spaziani, Montale e la Volpe
Umberto Eco, Montale e i sambuchi.
Nell'amabile libretto "Montale e la Volpe" in cui Maria Luisa Spaziani ricorda episodi del suo lungo sodalizio con Montale, c'è un episodio che bisognerebbe far studiare nelle scuole. Dunque, Spaziani e Montale passano vicino a una fila di sambuchi, fiore che Spaziani aveva sempre amato perché "a guardarlo con attenzione vi si può scorgere uno stellato notturno, con piccolissimi bocci a raggiera, un incanto". E forse per questo, dice, fra le poesie di Montale che da sempre sapeva a memoria, privilegiava un endecasillabo di straordinario accento: "Alte tremano guglie di sambuchi".
Montale, vedendo Spaziani in estasi davanti ai sambuchi, dice "che bel fiore" e poi domanda cosa sia, strappando all'amica "un urlo da belva ferita". Ma come, il poeta aveva fatto del sambuco una splendida immagine poetica eppure non era in grado di riconoscere un sambuco in natura? Ma Montale si era giustificato dicendo: "Sai, la poesia si fa con le parole". Trovo l'episodio fondamentale per capire la differenza tra la poesia e la prosa.
La prosa parla di cose, e se un narratore introduce un sambuco nella sua vicenda deve sapere cosa sia e descriverlo come si deve, altrimenti poteva fare a meno di evocarlo. Nella prosa rem tene, verba sequentur, possiedi bene quello di cui vuoi parlare e poi troverai le parole adatte. Manzoni non avrebbe potuto aprire il suo romanzo con quello splendido incipit (che è poi un novenario) seguito da una cantabile descrizione paesaggistica, se non avesse prima guardato a lungo e le due catene non interrotte di monti, e il promontorio a destra e l'ampia costiera dall'altra parte, e il ponte che congiunge le due rive, per non dire del Resegone. In poesia accade invece tutto l'opposto, prima t'innamori delle parole, e il resto verrà da sé, verba tene, res sequentur.
Dunque Montale non avrà mai visto le minuscole biche, le alghe asterie, l'erbaspada, la siepe cimata dei pitosfori, la piuma che s'invischia, gli embrici distrutti, la cavolaia folle, il coro delle coturnici, la furlana e il rigodone, la rèdola nel fosso? Chissà, ma tale è il valore delle parole nella poesia, dove il rivo strozzato gorgoglia solo perché deve rimare con l'accartocciarsi della foglia, altrimenti avrebbe potuto - che so - gloglottare, borbottare, rantolare, ansimare o boccheggiare, mentre una pura necessità aurale ha voluto che il rivo mirabilmente gorgogliasse e "per sempre - con le cose che chiudono in un giro - sicuro come il giorno, e la memoria - in sé le cresce".
[Tratto da "L'Espresso", 21 dicembre 2011 ]
da Ossi di Seppia, 1925
Tramontana
Ed ora sono spariti i circoli d'ansia
che discorrevano il lago del cuore
e quel friggere vasto della materia
che discolora e muore.
Oggi una volontà di ferro spazza l'aria,
divelle gli arbusti, strapazza i palmizi
e nel mare compresso scava
grandi solchi crestati di bava.
Ogni forma, si squassa nel subbuglio
degli elementi; è un urlo solo, un muglio
di scerpate esistenze: tutto schianta
l'ora che passa: viaggiano la cupola del cielo
non sai se foglie o uccelli - e non son più.
E tu che tutta ti scrolli fra i tonfi
dei venti disfrenati
e stringi a te i bracci gonfi
di fiori non ancora nati;
come senti nemici
gli spiriti che la convulsa terra
sorvolano a sciami,
mia vita sottile, e come ami
oggi le tue radici.
Maestrale
S'è rifatta la calma
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora
il cammino ripiglia.
Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.
O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:
sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
"più in là"!
VASCA
Passò sul tremulo vetro
un riso di belladonna fiorita,
di tra le rame urgevano le nuvole,
dal fondo ne riassommava
la vista fioccosa e sbiadita.
Alcuno di noi tirò un ciottolo
che ruppe la tesa lucente:
le molli parvenze s'infransero.
Ma ecco, c'è altro che striscia
a fior della spera rifatta liscia:
di erompere non ha virtù,
vuol vivere e non sa come;
se lo guardi si stacca, torna in giù:
è nato e morto, e non ha avuto un nome.
RIVIERE
Riviere,
bastano pochi stocchi d'erbaspada
penduli da un ciglione
sul delirio del mare;
o due camelie pallide
ne i giardini deserti,
e un eucalipto biondo che si tuffi
tra sfrusci e pazzi voli
nella luce;
ed ecco che in un attimo
invisibili fili a me si asserpano,
farfalla in una ragna
di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.
Dolce cattività, oggi, riviere
di chi s'arrende per poco
come a rivivere un antico giuoco
non mai dimenticato.
Rammento l'acre filtro che porgeste
allo smarrito adolescente, o rive:
nelle chiare mattine si fondevano
dorsi di colli e cielo; sulla rena
dei lidi era un risucchio ampio, un eguale
fremer di vite
una febbre del mondo; ed ogni cosa
in se stessa pareva consumarsi.
Oh allora sballottati
come l'osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata...
Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rósa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.
Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d'acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi...
Ah, potevo
credervi un giorno o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all'agonia d'ogni essere.
Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d'unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l'invito
di voci d'oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l'elegia; rifarsi;
non mancar più.
Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v'investe, riviere,
rifiorire!